Secondo il Tesoro, tra il 2002 e il 2007 (gli anni clou della grande speculazione dei titoli tossici) sono stati circa 900 i derivati firmati da 525 Enti Locali, tra cui Regioni, Province e Comuni. Per un valore complessivo che la Banca d’Italia stima in 1.055 miliardi di euro. Due terzi di questi sono un cancro che cresce nella pancia degli enti pubblici. In molti casi si è trattato di perdite nette, che hanno portato a enormi sacche di indebitamento pagate con i soldi dei cittadini.
Ora gli enti pubblici italiani hanno uno strumento di difesa in più per parare i colpi bassi sferrati dalle banche e da consulenti così poco trasparenti, da sfiorare persino la truffa. Parliamo dei contratti di finanziamento con prodotti finanziari tossici, i cosiddetti derivati. Che due sentenze della magistratura – la prima della Corte d’Appello di Milano, la seconda del Tribunale di Roma – hanno di fatto annullato perché sottoscritti dagli enti pubblici “in assenza di terzietà della consulenza”. Secondo i giudici, dunque, quei derivati sarebbero viziati da un conflitto di interesse delle banche che sono venditori e consulenti al tempo stesso dei loro stessi prodotti.
Un meccanismo perverso, e in alcuni casi una vera e propria truffa, spacciata agli enti pubblici italiani che ancora oggi conservano nel cuore dei loro bilanci una bomba a orologeria pronta a esplodere.
A questa vera e propria truffa oggi è possibile opporsi. Anche se a chiudere quei contratti sono stati colpevolmente o più spesso inconsapevolmente amministratori e funzionari pubblici, che speravano di far quadrare i conti, finanziando progetti che altrimenti non sarebbero riusciti a realizzare.
Impugnare quelle sentenze dovrebbe essere un obbiettivo di tutte le amministrazioni pubbliche, nell’interesse di tutti i cittadini, a cui hanno lasciato in eredità un pesantissimo debito da saldare. E tutto in favore di banche e istituti di credito che finora si sono arricchiti alle spalle di intere comunità.
Un ulteriore causa per l’annullamento di quei contratti, avverte la rivista Valori, risiede nel mancato rispetto da parte delle banche delle normative previste dalla legge italiana, che prevede il diritto di recesso entro sette giorni. Una semplice clausola (di ispirazione comunitaria) che però diventa dirimente in molti processi oggi in corso con in Gran Bretagna (sede designata di molti arbitrati legali di questo tipo). Non rispettare quella clausola, scrivono i giudici, equivale ad aver stipulato contratti “opachi”. Da qui la possibilità di eventuali risarcimenti, che il Financial Conduct Authority, stima in oltre 2 miliardi di sterline.