Il nostro disegno di legge sul commercio equo e solidale (di cui sono primo firmatario) è finalmente approdato in discussione nella Commissione Industria del Senato. Ci sono voluti due lunghi anni e molte pressioni da parte del Movimento 5 Stelle affinché si ponesse una questione di fondamentale importanza per i diritti dei consumatori, ma anche e soprattutto di migliaia e migliaia di lavoratori in Italia e nel mondo. Che oggi soffrono le regole viziose della grande distribuzione organizzata (Gdo).
Mi auguro che la legge (DL. n. 2272) venga approvato rapidamente. Perché il settore del commercio equo solidale merita ben altra attenzione e altre proposte di quelle riservategli finora.
Attualmente in Italia il movimento dell’equo e solidale conta circa 92 organizzazioni associate all’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale (AGICES). Queste organizzazioni gestiscono 269 botteghe nel mondo e sono distribuite in 16 regioni italiane, con oltre 1000 lavoratori e circa 5000 volontari, con ricavi di 72.147.741 euro nel 2009. Mentre nel mondo il fatturato del Fair Trade è passato da 238 milioni di dollari nel 2001 a 4,6 miliardi di dollari nel 2010.
Se mettiamo infatti a confronto i due mondi della distribuzione commerciale (quello equo e solidale e quello della grande distribuzione), ci accorgiamo che qualcosa non funziona. Innanzitutto c’è un clamoroso dislivello di mercato. La Gdo occupa oltre il 90% del mercato, seguito dagli esercizi commerciali tradizionali, per finire con numeri bassissimi nel settore dell’equo.
La grande distribuzione nel mondo è alla continua ricerca di bassi costi della produzione. E questo significa una sola cosa: sfruttamento dei lavoratori, azzeramento dei loro diritti e mancato rispetto dell’ambiente. Ma c’è di più. Secondo le stime ufficiali, un terzo del cibo prodotto nel mondo viene sprecato. E questo appartiene a regole non scritte, volute proprio dalla Grande distribuzione organizzata (Gdo) per tenere alti i prezzi. I grandi profitti non tengono conto di chi lavora, ma solo dell’andamento economico dei propri bilanci.
Per non parlare di come questo comportamento influisca in maniera negativa anche sui costi indiretti dei danni alla salute di centinaia di milioni di persone, causati da una produzione irrispettosa dell’ambiente e delle risorse naturali. In gergo tecnico sono chiamati costi per “esternalità”. Ovvero tutte le conseguenze indirette di un cattivo modo di produrre e vendere sui mercati internazionali.
Nella nostra legge invece sono previsti strumenti di incentivazione e di promozione delle buone prassi commerciali, che partono dal rispetto dell’ambiente e dei lavoratori. La nostra Costituzione riconosce al commercio equo e solidale un’importante funzione di crescita economica e sociale nelle aree marginali del pianeta. Avendo a cuore un modello di economia partecipata, fondata sulla giustizia sociale, sui diritti umani e sulla cooperazione internazionale. Con un’attenzione alla conservazione dell’ecosistema e rispettosa dei diritti e dei bisogni di tutti i soggetti che sono parte dello scambio economico nella promozione dell’incontro fra culture diverse.
Tutti i nostri sforzi sono orientati a far sviluppare un settore che oggi è ai margini, pur essendo molto importante per la filiera commerciale italiana a mondiale. Ma soprattutto puntiamo a riequilibrare in futuro i rapporti tra i due tipi di commercio sopra raccontati.