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Def, governo bocciato da Corte dei conti e Bankitalia: previsioni sballate

Il mio intervento in Commissione sulla Nota di aggiornamento al Def e previsioni di crescita

Cari colleghi,

la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2016 presentata dal Governo ha suscitato le prese di posizione dell’Ufficio di Bilancio, della Banca d’Italia e della Corte dei conti che ritengono SOSTANZIALMENTE sbagliate le previsioni contenute nella Nota. Un’autentica bocciatura. Il Governo ha dato al Parlamento conti sbagliati. Per nascondere i fallimenti, le politiche e le scelte economiche sbagliate.
Il presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), Giuseppe Pisauro, in audizione presso le Commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato nell’ambito dell’esame preliminare della Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2016, nel suo intervento ha effettuato un’approfondita analisi del contenuto della Nota illustrando le valutazioni dell’UPB che condurrebbero a un esito non positivo del processo di validazione del quadro programmatico 2017 e, in particolare, delle stime di crescita del PIL per il prossimo anno, sia in termini reali che nominali. Le stime appaiono contrassegnate da un eccesso di ottimismo. Risultano, infatti, significativamente fuori linea rispetto all’intervallo dei previsori del panel UPB. Le valutazioni effettuate portano inoltre a ipotizzare rilevanti scostamenti in eccesso della crescita reale e nominale anche per il 2018. Inoltre, l’UPB ritiene molto incerta la possibilità di accoglimento avanzata all’UE di poter aumentare l’indebitamento dello 0.4% per coprire i costi di eventi eccezionali.
La Banca d’Italia, dal canto suo, ha evidenziato come l’obiettivo dell’1 per cento prefissato dal Governo sia ambizioso e ha espresso forti dubbi sulla capacità della prossima manovra di bilancio di stimolare la crescita per il 2017. A riguardo, la Banca d’Italia ha altresì stigmatizzato il fatto che la Nota non riporta indicazioni specifiche relative ai principali ambiti di intervento della manovra di finanza pubblica per il prossimo triennio e agli effetti finanziari attesi in termini di entrata e di spesa, disattendendo – quindi – quanto previsto all’articolo 1, comma 7, lettera b), della legge n. 163/2016, approvata dal Parlamento questa estate, e che costituisce una delle modifiche più significative apportate dalla legge medesima ai contenuti della Nota. Ai sensi di tale disposizione, infatti, nel Documento deve essere esposta una prima informazione in ordine ai contenuti ed alla composizione della manovra che verrà poi operata con la legge di bilancio.
I dubbi sulle previsioni sono condivisi anche dalla Corte dei Conti, secondo cui nella Nota si intravedono “potenziali elementi di fragilità del quadro economico che si riflettono sul percorso programmatico di finanza pubblica” con “un rischio al ribasso” per le prospettive di crescita. La domanda internazionale rischia di pesare sulle nostre esportazioni, e quindi sulla crescita, con conseguenti difficoltà per rispettare gli obiettivi di bilancio. La Corte sottolinea anche lo sbilanciamento eccessivo nella valutazione degli effetti positivi dell’extra deficit.
In sostanza, possiamo affermare che l’aggiornamento del DEF 2016 segna il punto forse più basso finora raggiunto da questo Governo. Come ha notato l’UPB, il deficit strutturale, quello corretto per l’andamento economico, non sembrerebbe più di tanto linea rispetto alle previsioni, perché la crescita è risultata talmente bassa che la correzione ciclica assorbe il peggioramento dei conti pubblici. In effetti, la crescita, che nel DEF di aprile il governo prevedeva a 1,2% e 1,4% rispettivamente nel 2016 e 2017, viene fissata nell’Aggiornamento rispettivamente a 0,8% e all’1%. Il deficit, previsto per quest’anno e per il prossimo anno al 2,3% e 1,8%, salirebbe al 2,4% quest’anno e, considerando anche le spese che il governo vorrebbe escludere dal Patto, rimarrebbe allo stesso livello l’anno prossimo.
L’arresto del processo di risanamento non sarebbe notizia negativa, anzi, piacerebbe interpretarla come inversione dell’orientamento di politica economica e il superamento, finalmente, dell’austerity. Ma non è così, purtroppo, e la realtà è ben più tragica. Partiamo dalla flessibilità nell’interpretazione del Patto di stabilità, tanto agognata e pretesa dal nostro paese: essa servirà esclusivamente, insieme a tutto l’aumento del deficit 2017 rispetto all’obiettivo, per neutralizzare le clausole di salvaguardia da 15 miliardi inserite nella Legge di stabilità dell’anno scorso, che prevedevano in automatico un aumento di IVA e accise nel 2017 se non si fossero realizzati equivalenti risparmi di spesa. Poco o nulla è stato fatto, e l’Italia si ritrova adesso a utilizzare tutti i margini di flessibilità cui può aspirare non per rilanciare sviluppo, economia, redditi e occupazione, bensì solo per evitare la drammatica recessione che verrebbe innescata dall’aumento dell’IVA.
Tolti questi 15 miliardi, la prossima manovra di bilancio sembra ridursi a poca cosa: 7-8 miliardi di maggiori spese, compensati da altrettanti miliardi di minori spese o maggiori entrate. Un’inezia rispetto a quanto il nostro Paese avrebbe disperatamente bisogno. Si arriverà forse a stanziare 2 miliardi per le pensioni e il sostegno – in prospettiva elettorale – dei loro redditi, ma compensate da un corrispondente calo della spesa sanitaria. Qualche centinaio di milioni in più verranno destinati al rinnovo dei contratti nel pubblico impiego, finanziati con tagli lineari, o semi-lineari alla spesa dei ministeri.
Si arriverà forse a definire una riduzione dell’IRPEF, ma solo a partire dal 2018, anno nel quale, comunque, opereranno altre clausole di salvaguardia da neutralizzare. Qualche soldo verrà destinato alla lotta alla povertà estrema, ma niente allo sviluppo dei servizi sociali e degli altri istituti del welfare. Gli unici interventi di una qualche rilevanza economica sembrano quelli destinati alle imprese, i superammortamenti, la riduzione delle imposte per le imprese piccole, le garanzie pubbliche sugli investimenti, il programma del ministro Calenda, Industria 4.0. Nulla di sostanziale, invero, ma si deve tener presente che le imprese godranno nel 2017 di due dei più costosi interventi realizzati dal governo: la decontribuzione, totale sugli assunti nel 2015 e parziale sugli assunti nel 2016, che ha un costo di almeno 7 miliardi l’anno e almeno 20 miliardi nel quadriennio 2015-2018; la riduzione dell’imposta sulle società, l’IRES, dal 27,5% al 24% che scatterà il prossimo primo gennaio, con un costo per l’erario di almeno 3,5 miliardi l’anno. Sono interventi estremamente costosi, perché si tratta di misure indirette e non selettive, che beneficiano tutte le imprese indistintamente, non solo quelle che investono, crescono e creano occupazione e reddito.
Servirebbe altro: investimenti diretti, piccole e medie opere in grado di assicurare in breve tempo e a costi contenuti un effettivo miglioramento delle condizioni produttive e di vita; assicurare le migliori condizioni per lavorare e partecipare, garantendo trasporti, servizi sociali inclusivi e flessibili, reti. Bisognerebbe perseguire non una riduzione fiscale ma una redistribuzione del carico dai poveri ai ricchi, dal lavoro alla rendita, da chi – singoli o imprese – paga a chi non paga. Servirebbero, ancora, interventi di stimolo non a pioggia, bensì selettivi.

Nulla di tutto ciò sembra ritrovarsi nella manovra preannunciata dal governo, che nel lasciare il paese senza più margini di libertà, continua ad intestardirsi in politiche economiche liberiste senza futuro, di riduzione fiscale e di incentivi alle imprese, solo addolcite da mancette elettoralistiche. Un quadro a tinte fosche, che ben giustifica il desiderio, pur infantile, di rifugiarsi nell’immagine di un bel Ponte sullo Stretto.

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