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Perché No. Cambiamento? Si rafforza solo l’indirizzo conservatore

Il mio articolo pubblicato su Quotidiano Energia l’11 novembre 2016

Il quadro regolatorio Stato-Regioni va rivisto, ma questa riforma non offre certezze agli operatori

Cambiare le leggi per sostenere una politica economica rivolta alla decarbonizzazione del sistema produttivo del Paese e costruire una filiera produttiva indirizzata alla crescita, alla ripresa dell’economia e dell’occupazione è possibile. In questi anni avrebbe dovuto farlo il Parlamento. Questa riforma costituzionale non è necessaria.

Il mancato obbiettivo, che si auspicava raggiungere con l’emanazione del Green Act, non è attribuibile ai rapporti e alle competenze tra lo Stato e le Regioni ma all’assenza della volontà politica di Renzi e della sua maggioranza, caratterizzata da una forte attenzione ad interessi di modello produttivo ancorato all’impiego delle fonti fossili. Possiamo riscontrare la scelta di questo modello, determinato da decisioni di politica economica centralizzate e influenzate da gruppi di pressione, in diversi episodi parlamentari. Un esempio su tutti l’emendamento Total.

Ma l’elenco dei favori alle fossili è lungo. Così pure quello degli ostacoli studiati dal Governo per fermare le politiche rivolte ad una economia sostenibile. Lungi da me difendere le Regioni che non possono essere sottratte da responsabilità su parte del rallentamento verso la costruzione di un’economia sostenibile. Ma la riforma del Titolo V non porta cambiamenti in questa direzione. La si promuove come la soluzione mentre invece rafforza l’indirizzo conservatore attraverso la centralizzazione della decisione minata dal rischio di nuovi contenziosi.

Seppur è condivisibile e necessario rivedere il quadro regolatorio per migliorare il ruolo e le competenze nei rapporti tra lo Stato e le Regioni, la modifica proposta non favorisce il cambiamento auspicato. E’ pertanto ingiusto attribuire alle autonomie locali l’unicità della responsabilità, come se fossero solo loro la causa di ogni ostacolo allo sviluppo quando chiaramente il Governo non ha la volontà di sostenere un indirizzo politico rivolto alla sostenibilità.

Dagli approfondimenti, è lecito dubitare che l’obiettivo possa effettivamente dirsi realizzato. Sussistono, al contrario, diversi elementi che lasciano ipotizzare come l’intervento “riformatore” sia foriero, in questo come in altri ambiti, di determinare squilibri di sistema e non offre certezze agli operatori del settore energetico ed infrastrutturale. Se da una parte, la riforma è presentata come uno strumento di semplificazione e risoluzione del contenzioso e delle difficoltà interpretative che hanno interessato il riparto di competenze legislative, dall’altra non si comprende per quale ragione sia stato mantenuto per le Regioni a statuto speciale e per le province autonome il vecchio riparto giudicato nefasto.

Cosi come è impostata, si teme che la nuova suddivisione di competenze, inserita in un procedimento legislativo oscuro, finisca con l’estendere il contenzioso Stato-Regioni a quello Camera nazionale-Senato territoriale. Un Senato composto da consiglieri regionali e da sindaci verrà poi a sovrapporsi al già rodato sistema delle Conferenze, in particolare l’Unificata, duplicando le occasioni in cui i conflitti sono sollevabili ma non le sedi in cui risolverli senza prove di forza unilaterali.

La riduzione della sfera di competenza regionale non si sposa con la “clausola di supremazia”, che consente allo Stato di intervenire in materia regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica o la tutela dell’interesse nazionale. Formulazioni che aprono le porte ad infinite discussioni, tra le quali emerge preponderante la centralizzazione delle decisioni del governo del territorio e delle politiche economiche, attualmente con un indirizzo fortemente orientato verso una direzione. Per tali ragioni votiamo no al referendum del 4 dicembre.

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